Un mistero irrisolvibile

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    Con la coda dell'occhio scorse la 24ore posata sul sedile accanto a se nella grigia Mustang. Ci aveva pensato tutta quella primavera, macinato e rimuginato sull'enigma offertole dall'oggetto inviatole dal suo arzillo nonno: dentro la valigetta si nascondeva il prezioso Calice di Giuda, insignificante nell'aspetto, ma dal significato così misterioso che l'aveva persino costretta a chiedere aiuto agli Osservatori del Talamasca.

    In verità non era stata lei a richiedere i servigi degli Osservatori, bensì suo nonno che si era sentito in dovere di chiamare i grandi capi di Londra. Questi, a loro volta, si erano premurati di avvisare del suo arrivo la sede a Nouvieille... almeno non avrebbe fatto un'entrata a sorpresa con chissà quali pessimi risvolti.

    Dunque ora era ferma, parcheggiata a neanche una decina di metri dalla sede del Talamasca, attorniata da imponenti ville lustre e perfette come case di bambola, dai prati perfettamente curati nei minimi dettagli. Le pareva di esser finita in un mondo di plastica e falsità, proprio come Oriana Fallaci nel libro 'Se il Sole muore', catapultata in una specie di universo parallelo.

    "A Teodoro Freeman
    Che morì ucciso da un'oca
    mentre volava per andar sulla Luna."


    Recitò la bionda nordica ricordando le parole del libro, con un sorriso divertito; non capiva come un uomo potesse esser ucciso da un'oca e la scena era ovviamente comica, nonostante questo Freeman non avesse fatto una gran bella morte. Ma le bastava solo per il sorriso che quel pensiero, in un certo senso, le aveva dedicato.

    "Oh, al diavolo! Se sto qui ancora un pò finisce che metterò le radici." sbottò la bionda mettendo in moto la macchina, per poi dirigersi verso le alte cancellate del Talamasca.

    Non fu difficile entrare: dopo aver citofonato un paio di volte, un uomo in evidente stato di noia ed esasperazione le aveva chiesto un paio d'informazioni. Aveva impiegato un po' prima che questi le desse la possibilità di entrare nel modesto giardino dell'abitazione comune degli Osservatori; si guardò poco intorno, ormai nauseata dai perfetti e lussureggianti giardini che aveva visto attorniare le linde bicocche aristocratiche. Poteva solo dire che l'architettura del luogo l'aveva colpita, unica pecca stava nel fatto che abitazioni di quello stampo divenivano presto preda di magnati e collezzionisti, nonchè come patrimonio del comune e del territorio.

    La Mustang ruggì un momento prima di arrestarsi sotto una comoda tettoia sul lato sinistro della sede: almeno lì la sua vettura non avrebbe avuto problemi con il sole e non si sarebbe arroventata come l'acciaio nella forgia. Si premurò di non sballottare troppo la 24ore, quando smontò dall'automobile, per poi chiamare con uno schiocco delle labbra l'inseparabile Silac. Questi scivolò con grazia fuori dall'abitacolo, seguendo poi la padrona dentro il nuovo ambiente.

    Una volta che fu introdotta nell'atrio arrestò il suo incedere in mezzo alla sala: le avevano semplicemente detto di aspettare, che presto qualcuno l'avrebbe aiutata nelle sue ricerche.

    "Certo, ma aspettare chi?" si chiese la bionda, guardandosi attorno "Qui ci siamo solo noi ed il silenzio."

    Il gatto dal canto suo si strofinò contro la gamba della donna, subito raggiunto da una lieve carezza delle forti mani della vichinga. Quest'ultima prese a guardarsi attorno, soppesando ogni stucco, marmo e dipinto: tutto aveva il tono stucchevole e melanconico del vittoriano, conservando ancora quella punta maliziosa del roccocò. Troppi fronzoli... troppe inutili pomposerie in un ambiente che doveva fungere unicamente da riparo per il corpo.



    Edited by Gatto_Nero - 26/12/2011, 14:21
     
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    Torno in vita, in questo mattino qualunque, nel peggiore dei modi possibili: la suoneria del telefonino, poggiato sul comodino a pochi centimetri di distanza dal letto, mi fa da sveglia, rompendo l’idillio di un seducente sogno mattutino, dalle aspettative alquanto erotiche. Non apro gli occhi e col pensiero faccio traballare tutti i santi del Paradiso, maledicendo il fatto di non potermi sigillare le orecchie. Così mi giro dall’altra parte, avvolgendomi completamente nel sottile lenzuolo, inutile; fosse inverno, la flanella e un bel piumone riuscirebbero ad ovattare quella cantilena brasiliana che tanto mi piace, dopotutto. Ma nulla da fare, anche perché l’intelligente che sta martellando il mio cellulare, sembra voler farmela ascoltare tutta, la canzoncina, tant’è che si arresta alla fine della ripetizione del ritornello.
    Quando la pace torna a regnare nella stanza, i miei occhi sono già belli che spalancati e mentre abbandono il coccolante giaciglio, me li stropiccio per veder bene, sul display, chi è stato il genio che ha telefonato alle nove e mezza del mattino. Mia madre. Chi poteva essere, se non lei? Questa storia la farò finire, prima o poi! Non possiamo andare avanti così, non può vivere nella preoccupazione eterna sullo stato di salute del proprio primogenito!
    Mangi abbastanza? Fai una vita regolare? Dormi come si deve? Lo vorrei tanto, se non telefonassi ogni minuto e quarto d’ora!
    Vado alla finestra, con solo i boxer addosso, a veder com’è la giornata: c’è un cielo cristallino, forse il preludio di un dì dopotutto bello, nonostante l’inizio canterino, pertanto snervante. Nonostante l’autunno sia alle porte, sebbene le giornate si siano leggermente rinfrescate, l’atmosfera che mi arriva è piuttosto quella di un amarcord primaverile. Lascio germogliare perciò l’idea di andare a fare una passeggiata, più tardi, non prima di qualche ora spesa bene nel zaffato e accogliente salotto della Sede. Per questa ragione, dopo una sciacquata al viso, mi avvolgo in abiti leggeri e tipicamente casalinghi: sotto una polo Fred Perry verde veronese, con i bordini del colletto bianchi, indosso un bermuda anonimo color seppia; nascondo infine dei fantasmini neri con un paio di Converse verde lime.
    Prima di uscire dalla camera, lancio un paio d’occhiate al notebook, un mix di malinconia e struggimento per via di un desiderio, infondo labile, di connettermi e leggere quali notizie oggi girano per il mondo. Lascio perdere, rimandando la cosa a più tardi; preferisco molto di più portarmi avanti col libro iniziato qualche giorno fa. Lo scrittore è uno spagnolo e ne analizzo un po’ svogliatamente la foto in retrocopertina mentre scendo le scale che conducono all’atrio, per poi dirigermi quasi senza guardare, fino al “salotto di lettura”, lasciandomi cadere a peso morto sul primo divanetto che trovo. Ma mentre dondolo i piedi sospesi oltre il bracciolo, mentre accuratamente scorro le pagine con le dita, in cerca del mio segnalibro a forma di freccia, un suono altrettanto fastidioso come lo è stata la suoneria del cellulare neanche venti minuti fa, echeggia per tutto l’edificio, minaccioso quanto l’allarme di un attacco aereo in periodo di guerra.
    Non ho minimamente intenzione di andare a rispondere, anzi, mi nascondo meglio dietro la copertura fornita dal grosso divano, tirando al petto le gambe, acciottolandomi come meglio mi riesce. Sento però crescere una tensione infantile, neanche avessi commesso chissà quale guaio con la mia negligenza, tant’è vero temo che finirò a letto senza cena, stasera. Respiro piano, intensifico l’udito, infine sento, in lontananza, che qualcuno degli inservienti se ne è occupato: è ciò che speravo! Ma poi un silenzio da film horror pare avvolgere l’intera Sede, finché, a passi soffici, colui che si era guadagnato ogni mia benedizione andando a rispondere al citofono, non mi stana nel mio nascondiglio di fortuna, bloccato oltremodo in una posa plastica imbarazzante e con stampata la faccia del colpevole. Sorrido mezzo imbarazzato, mezzo divertito dalla scenetta di cui mi sono reso protagonista. Il tipo, di cui faccio fatica a ricordare il nome, mi comunica che c’è qualcuno nell’ingresso e che in Sede, al momento, ci sono solo io. Ci vuole un attimo e la perplessità mi investe come un getto d’aria fredda, mentre sulle mie spalle si carica il peso della responsabilità.
    Annuisco e un secondo dopo sono solo, a soppesare la situazione. Abbandono il libro su un tavolino lì vicino, accanto ad una tazza di porcellana con dipinte sopra delle piccole mosche e sul fondo, c’è ciò che sembra caffè, o quel che resta. Basta la contemplazione di quell’oggetto di dubbio gusto per ritrovarmi in un flusso di ipotesi e pensieri, del tutto indifferenti verso una vita che va avanti lo stesso: chi è? cosa vorrà? un nuovo Osservatore? perché deve toccare proprio a me? devo far stirare quel jeans; quant’è brutta questa tazza! il libro lo continuo dopo.
    Maledetta fantasia! Devo concentrarmi su impegni importanti, come quello che mi aspetta oltre questa porta, oltre questa stanza, alla fine di questo corridoio, quasi al centro dell'ingresso, tra le imponenti scale che conducono ai piani superiori e la porta, da dove uscirà la figura, in controluce per via del Sole che entra dalla facciata della Sede, se non sarò interessato a quel che avrà da dirmi.
    Noto che si tratta di una donna, di una ragazza. E’ alta, parecchio anche. Credo si stia guardando attorno, valutando arredamento e stile. Non riesco a vedere altro, colpa della forte luce che invade l’atrio e rende l’ospite una scura silhouette dai contorni candidi e luminescenti.
    «Lo so, è molto pacchiano. Ma ci si abitua» esclamo quasi subito, incrociando le braccia, accompagnandola nell’analisi della mobilia. Un paio di occhiate col naso all’insù, un qualcosa fatto ormai un numero spropositato di volte, per poi puntare di nuovo le iridi glaciali verso la sconosciuta. Chi sarà mai?
     
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    Quel luogo la metteva in soggezione: troppa cura nei dettagli, dal vaso di fiori, sulle cui corolle ancora perdurava qualche goccia sferica d'acqua, ai tappeti sotto le sue scarpe con il tacco...troppa perfezione fasulla che le faceva sentire terribilmente a disagio, come la lattuga nel banco dei surgelati. Non che si ritenesse un vegetale, ma la sensazione di gelo e distacco di quella casa le faceva l'effetto del freezer.

    Lei preferiva di gran lunga abitazioni più spartane e piccole, qualcosa di più rustico e disordinato in cui non doversi sentire una Barbie nel salottino delle amichette. Era da sempre stata abituata alla minuscola casa che divideva con suo nonno, o alla graziosa casina che era quella della sua vicina Gunnhild. Forse era un pensiero molto animalesco, ma una tana era preferibile a quel lusso tanto sfrenato.

    Si mosse a disagio sulle scure scarpe laccate, spostando il peso da un piede all'altro, allo stesso modo di come fanno i cavalli. Era impaziente, lo era sempre stata, tipico sintomo della sua anima esuberante che spesso sfociava in nervosismo e nevrosi. Cominciò, duque, a osservare critica le volute ed i fronzoli, perdendosi di volta in volta in arabeschi disegnati dalle ombre su cornici e ceramiche. Si chiese se qualcosa in tutte quelle cianfrusaglie ben lucidate avesse una provenienza unica, come quella del 'calice' che si era portata appresso; chissà che lo strano vaso di blu dipinto non fosse altro che una cornucopia camuffata... le venne quasi da ridere.

    Silac, dal canto suo, non aveva accennato a muoversi dal fianco della padrona, cercando probabilmente di attuare una mimesi: si era seduto accanto al piede della bionda nordica, la coda arrotolata attorno alle bianche zampette, mentre con lo sguardo pareva fissae il vuoto innanzi a se. Pareva in tutto e per tutto uno di quegli animali in ceramica, un suppellettile che spesso in abitazioni simili non mancava mai, tradito solamente dal respiro e dal movimento accennato degli occhi e delle orecchie.

    Non si scompose nemmeno più di tanto quando giunse, di lì a qualche minuto, un ragazzo, un giovane uomo: gli occhi gialli del gatto fissarono i movimenti di quest'ultimo con curiosità, mentre la lucida sferidicità dell'occhio ne rimandava un riflesso distorto, similare agli specchi di una casa degli orrori del luna park.

    CITAZIONE
    «Lo so, è molto pacchiano. Ma ci si abitua»

    Brynhild sobbalzò, presa in contropiede dal nuovo giunto, in quanto ormai senza la benchè minima speranza di venir accolta ed ascoltata. Con un movimento involontario lisciò il pantalone nero del completo gessato: aveva lasciato la giacca scura in macchina, preferendo rimanere in maniche di camicia. Quest'ultima si tendeva sulla muscolatura tornita e forte ogni qual volta compiva movimenti con la parte superiore del corpo.

    Due mondi di ghiaccio e nevi perenni si fissarono, occhi di drago che ne incontravano altri, benchè quelli del nuovo giunto avessero una sfumatura più cerulea, rispetto ai suoi tendenti al grigio. L'artigiana continuò a fissare il ragazzo senza dire una parola, incapace di trovare una qualsiasi frase da repertorio nella sua mente in confusione. Nulla di serio, ovviamente, solo l'improvvisa e spiacevole sensazione che chi le stava davanti potesse aver compreso e, chissà come, udito i suoi pensieri.

    "Probabilmente per qualcuno che ci ha già vissuto, ma io mi sento come un canarino al momento." riuscì a dire in un impeto di ritrovata intelligenza. "Comunque. Stavo cercando un Osservatore, non potreste indicarmene uno?"

     
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    Ci vogliono pochi attimi per registrare l’informazione proveniente dai miei occhi: man mano che si abituano alla forte luminosità dell’atrio, mettono a fuoco un dettaglio dopo l’altro, fino probabilmente ad assomigliare ad un paio di biglie, con le pupille ridotte a piccoli punti neri, inscritte in due circonferenze dalle sfumature del mare polare durante la lunga estate. Con tutta questa luce, la mia vista, in totale autonomia, ha reagito riducendone l’apertura, col foro che non necessita più di una dimensione larga, e di fatto inutile, garantendomi, non a caso, una buona vista anche con la cattura di minor chiarore. Un annebbiamento della durata di pochi sprazzi di tempo, poi torno a vederci abbastanza bene, ma solo assottigliando le palpebre, tant’è mi chiedo: sarebbe tanto stupido girar per l’edificio con gli occhiali da sole appollaiati sul naso? Probabilmente sì.
    La mia apparizione ha provocato un piccolo spavento nell’ospite, sfuggitomi proprio a causa della poca visibilità, di cui è colpevole questa sorta di cecità, per fortuna in via di guarigione. Difatti, a riportar le iridi sulla donna, scopro tutta una serie di finezze, persino quelle più insignificanti, che alla prima occhiata mi sono sfuggite. Innanzitutto la contemplazione dell’ambiente: in un tipo come me genera fascino, sorpresa, nonché uno spropositato interesse su tutto ciò che gli occhi incontrano, il corpo avverte, persino ciò che l’olfatto cattura; ma in un tipo come quella donna, su cui grava ancora l’accusa di avermi interrotto la lettura proprio nell’esatto momento di cominciarla, ebbene l’atmosfera provoca disagio e imbarazzo, il classico trovarsi fuori posto, come la presenza di un tizio qualunque, abbigliato in giacca e cravatta, nel bel mezzo della ressa di un concerto rock.
    Scoccano i secondi e la silhouette inizia a prendere colore, definendosi in tonalità più nette, abbandonando la dualità dello scuro avvolto da un contorno abbacinante. Assodata l’altezza, gli ingranaggi della mia mente registrano molto velocemente tutta una serie di minuzie, frammenti di un puzzle alto quanto me, tasselli di un mosaico che in verità, non acquista nuovi colori, ma si tinge di nuance del bianco e del nero, avvalorate dalla splendida lucentezza del momento. Sarebbe superflua una fotografia, sul cui scatto apparirebbe soltanto un bagliore, che qualche folle potrebbe spacciare in giro, non so con quanta fortuna, come un’apparizione celestiale. Se non respirasse, penserei ad una statua consegnata all’indirizzo sbagliato: una pelle chiarissima, allo stesso tempo misteriosa, mescolanza del marmo col diamante, con risultato la figura ora scomoda alla mia vista offuscata; una chioma altrettanto accecante, riflettente una luce, quindi un colore, di certo errato rispetto a quello originale. Capelli dorati, di platino, bianchi? Non lo so, anche perché è il viso che mi cattura non appena provo a decifrarlo, finendo vittima di un potere meduseo: occhi di ghiaccio, scolpiti in un mondo dove non esiste alcuna parola per definire “calore”, o “fuoco”.
    Ho come l’impressione che ogni particolarità che mi si addice, con cui io stesso valuto la mia persona, sia resa insignificante da qualcosa oltremodo migliore, che si tratti dei miei occhi bluastri, o della mia pelle bianchiccia. Ecco, in automatico sono passato ad una descrizione alquanto sminuente di ciò che ho sempre apprezzato, ma penso di potercela fare a sopravvivere; nel frattempo, però, al cospetto di chi ho di fronte, non posso fare a meno di specchiarmi nella perfezione di taluni dei miei aspetti migliori.
    Catturo con la coda dell’occhio un movimento, che permette così allo sguardo di scollarsi finalmente, per potersi soppesare su qualcos’altro: la donna veste degli stessi colori donatigli da un’entità che custodisce tutti i segreti di una bellezza ultraterrena, anche con abiti umani, nella fattispecie una camicetta che definirla bianca sarebbe oltraggioso, mentre sotto indossa dei pantaloni gessati, in gradazione scura.
    Che mi venisse un colpo! Posso mai aver scambiato per qualcos’altro l’essere vivente acciottolato ai piedi della donna? Me ne rendo conto solo ora, ma un gatto marmoreo se ne sta sulle sue, a pochi centimetri da chi, senza alcun dubbio, è la sua padrona; non mi risulta che qualche abitante della Sede abbia con sé un animale da compagnia, ma potrei anche sbagliarmi. Il felino mi ricambia il cipiglio stupito, rendendolo stupido, dato che, quasi certamente, stava lì da chissà quanto tempo ad osservarmi con quei suoi occhi ambrati, senza fare una piega, senza muoversi di un pelo.
    E quando lo studio del candido micio sconfina la sopportazione massima di silenzio da parte di due individui, ecco che la sconosciuta parla, collegando le sue parole alle mie, di fatto utili a rompere il ghiaccio. Un suono sorprendentemente metallico, eppure è una voce umana quella che mi viene rivolta, comunicando calma e ferreo controllo, cancellando ogni disagio, comunque sia evidenziato dall’espressione sul finire ironica. A quanto pare un’abitudine complicata da modellare quella di inscriversi in un contesto vistoso, come è lo stile adoperato dal Talamasca; una disinvoltura difficile da ottenere, come appunto è l’ingabbiatura di qualsiasi creatura, dietro sbarre nemiche e straniere.
    Un concetto triste, è vero, ma nello spostare le iridi dal gatto alla donna, stando attento ad ogni parola pronunciata, mi lascio sfuggire dunque una breve risata al pensiero di veder tutti gli Osservatori trasformati in canarini. Non l’ho mai vista in questo modo, vivendoci dentro, ma capisco perfettamente l’idea ottocentesca e sofisticata che le Sedi possono dare a chi non ne mastica. E che penserebbe, la simpatica ospite, entrando in uno dei salotti da tè? Scapperebbe? Forse no, ma solo perché l’immaginazione mi gioca brutti scherzi: me stesso in forma canarina, alle prese con quel gattone bianco, una sorta di remake riuscito male di Titti e Gatto Silvestro.
    Le successive parole della statuaria donna mi prendono in pieno con la loro tempestività; è chiaro che non sto avendo a che fare con una perditempo. E’ in cerca di un Osservatore, ma non presuppone di averne uno proprio davanti. Così mi abbasso, piegando le gambe sulle ginocchia, puntellandomi con la sinistra appoggiata per metà sul pavimento; con la destra, invece, inizio a schioccare pollice e medio, richiamando l’attenzione del micio, su cui nuovamente rispedisco tutta la mia attenzione.
    «Nz nz» con la lingua attaccata tra gli incisivi e il palato, sottolineo il tentativo di richiamo del felino, speranzoso di poterlo accarezzare, sempre che sia di quelli socievoli e paciocconi; ma mentre aspetto, alzo il mento, fissando dal basso la donna, con un’aria segretamente divertita. «Guardi, ne ho visto uno fermarsi esattamente… qui» e con quel “qui” indico il me stesso sorridente, con gli occhi socchiusi per colpa della luce. «Sono un Osservatore, di che ha bisogno?» cortesia, gentilezza, forse una superflua sottolineatura di quel che ho già rivelato di essere; di certo l’aiuto offerto basta a mandare giù l’eventuale sgradita risposta iniziale. Intanto un punto interrogativo mi si formula nella testa: chi sarà mai, ma soprattutto, che vorrà dal Talamasca?
     
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    Troppo distante, involontariamente smarrita nella indissolubile continuità dei suoi pensieri, si era lasciata distrarre dalle sue elucubrazioni e non aveva minimamente percepito la venuta di quel ragazzo. Fortunatamente il giovane Silac era con lei e l'avrebbe avvisata di qualsiasi pericolo: se, dunque, il felino era rimasto cheto accanto a lei, quest'ultimo non vedeva il nuovo giunto come una minaccia.

    Si diede un contegno ed azzardò a chiedere informazioni, dopo aver risposto ironicamente al moro sull'impressione che le faceva quell'abitazione. In un angolino della sua mente sentì una vocina che le gridava 'pessima idea, pessima idea... corri corri corri corri.'... fortunatamente non le diede retta. Non era la prima volta che le capitava di esser in territorio nemico e del tutto sprovvista di qualsiasi arma od oggettino utile per la fuga; inoltre era li per un motivo ben preciso, quale avere informazioni sul Calice di Giuda.

    *Ma di cosa ti preoccupi*, l'ammonì un'altra vocina, *sei probabilmente nel posto più sicuro in tutta Nouvieille.* Quest'ultima aveva ragione, nonostante le sorgesse il dubbio di quante dannatissime voci vi fossero nella sua testa, quanti eco potevan ricreare le pareeti ossee della sua scatola cranica.

    Si concesse un momento per riorganizzare i pensieri e studiare un momento chi l'aveva accolta, la prima faccia visibile dietro ad una voce da quando era errivata. Quando i suoi occhi grigi si fissarono sul probabile abitante di quell'appariscente abitazione, scoprì che aveva avuto il medesimo pensiero, anticipandola di qualche momento. Non era la prima volta che qualcuno la squadrava da capo a piedi: le era capitato quando era andata in Tibet, quando era tornata dal monastero e quando si era trasferita a Nouvieille. Cosa ci fosse di così strano in lei proprio non riusciva a comprenderlo... due braccia, due gambe, un paio d'occhi... era sicura di aver tutto quello che serviva. Già, a parte il fatto che era una spanna più alta della media femminile, aveva un'invidiabile tartaruga granitica e due spalle forti, nonchè una collezione spettacolare di cicatrici... da andarci fieri, da dire agli amici 'ehi, vieni a casa mia! Ti mostro la mia collezione di tagli, ustioni e abrasioni'.

    Si diede una bella pacca mentale sulla fronte, con un sospiro, ricordando quanto la sua stima in quei momenti calasse vertiginosamente. Un bel giro sulle montagne russe della depressione, che terminavano con una dolorosa pacca da parte di un nonno immaginario, ma terribilmente reale.

    Tornò, dunque, al giovane che, mentre ella si divertiva con l'intricata matassa di fili della sua mente, si era infine chinato verso Silac, acquattandosi sulla punta dei piedi. Il gatto bianco continuò imperterrito a seguire ogni movimento del ragazzo, le pupille sottili, come falci di luna perse in un mare aureo, fisse su quest'ultimo. Il ragazzo provò inutilmente a chiamare il gatto, quanto mai diffidente verso gli sconosciuti, che allungò solo di poco il collo in direzione della mano che produceva un suono a lui quasi ignoto. Il roseo naso del felide si mosse, annussando l'aria. Ritrasse velocemente la testa dopo poco, andando poi a fissare la padrona con sguardo interrogativo.

    Dal canto suo la bionda valchiria, dopo un attimo di smarrimento decise di stare al gioco di quel giovane: si chinò anche lei, abbassandosi sino alla stessa altezza del ragazzo e posando con grazia la valigetta a terra. Un sorriso candido e innocente si disegnò sulle labbra rosate dell'artigiana, quasi a voler ricambiare quello che ora le rivolgeva il suo interlocutore, le palpebre leggermente calate sulle iridi argentee.

    "Oh, adesso lo vedo!" ciurlò divertita la donna, "Salve signor Osservatore, sono qui per chiederle se è arrivata la notifica di un consulto per Johan di Norvegia."

    Le era sempre piaciuto giocare, divertirsi e scherzare, soprattutto in momenti così seri, in cui alleggerire la tensione che si veniva a creare era un buon deterrente per qualsiasi tipo di imbarazzo. Al tempio avevano cercato in tutti i modi di chetare quel lato del suo carattere così vivace, ma l'esuberanza che tanto la caratterizzava non aveva voluto saperne di sparire. Era invece rimasta sopita il tempo in cui aveva soggiornato al monastero, tornando nuovamente vigorosa una volta in patria.

    "Gå til ham, Silac" soffiò la donna al gatto. Questi rollò i grandi occhi gialli, prima di alzarsi sulle affusolate zampe candide, per poi andare a strofinarsi contro la mano ancora tesa dell'Osservatore. Forse gli avrebbe fatto un torto o meno, imponendo al gatto di andare da lui.



    Edited by Gatto_Nero - 3/1/2012, 19:18
     
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    C’è poco da fare: i gatti sono creature superiori! Questo qui che sto cercando di richiamare, ovviamente non fa eccezione. Mi auguro per la mia mano, ancora allungata verso il micio, che abbia buone maniere, non come Star. Star è la gatta di mia zia Anna, una gatta che definirla infame è sinonimo di complimento; una gatta che vive al di fuori del tempo e dello spazio, abitante di un luogo e di un momento riassunti nella casa di mia zia e mia zia stessa. Star vive solo e soltanto di questo, tutto il resto è una forma indistinta che merita solo di essere agguantata con artigli affilati e zanne più perforanti di una spillatrice. Ad analizzarmi le braccia e le mani, non dovrei stupirmi di scoprire che una o due cicatrici sono opera sua. E dire che Star, a mia zia, l’ha regalata mia mamma. Ricordo ancora perfettamente quando, dalle mia braccia dondolanti, la passai a mia zia che se ne innamorò subito; peccato abbia viziato quella gatta peggio dei figli dei vip di Hollywood.
    Completamente diversa, al contrario, è Gem. Gem è la gatta di famiglia, la mia gatta insomma. Non posso negare il fatto che mi manca moltissimo, ma dopo tanti anni vissuti lontano da casa, nella sconfinata Londra, ormai mi sono abituato a tutti quelli che sono gli affetti che ho perso, trasferendomi all’età di tredici anni nella capitale inglese. La razionalità mi permette, però, allo stesso tempo, di sottolineare tutto quello che sono andato a guadagnarci: un’invidiabile cultura, tante belle esperienze, di certo una maturità niente male, ma che può sempre migliorare. Eppure Gem mi manca, mi manca il suo soffice pelo, la sua morbidezza, la sua “rettangolarità”, ovvero la sua abbondanza in fatto di peso, effetto provocato dalla sterilizzazione, da un’imbattibile pigrizia e una non indifferente ingordigia. E’ così che Gem è diventata la gatta più pacioccona e accoccolante che conosca, di fatto un pallone peloso, socievole verso chiunque, il classico peluche.
    Due storie completamente diverse, due gatte di fatto “cugine”, ma l’una l’opposto dell’altra. Un solo carattere in comune: il colore bianco del pelo, lo stesso di sto qui che resta immobile di fronte i miei invitanti richiami. Annusa l’aria, cerca di capire che diavolo è quell’arto tanto vicino che schiocca, o quel suono prodotto dalla mia bocca; probabilmente, come logicamente deve essere, non gli importa minimamente se tra un attimo esploderò, o se continui così ancora per qualche ora, tanto di sicuro se ne resterà lì a fissarmi con una strafottente indifferenza. Intanto, più lo guardo, più mi rendo conto che solo il colore lo accomuna con due delle numerose gatte della grande famiglia Duff-Sugar: il pelo di Gem è di quelli arruffati, mentre Star ha un pelo molto più liscio e gentile; questo qui, invece, ce l’ha molto corto, tant’è fa intravedere un corpo allenato, oltre ad una certa “classe” dovuta alla razza d’appartenenza, che però al momento mi sfugge.
    Nel frattempo il micio s’è annoiato di darmi retta, così ha iniziato a fissare quella che ora, chiaramente, non può che essere la sua padrona. So riconoscere certi sguardi, certe occhiate e quello che sta accadendo in questo momento è tipico della fiducia tra uomo e animale. Mi scopro così a seguire gli occhi dorati del felino, fino ad immergermi ancora nelle iridi innevate e immortalate in un giorno di Sole, appartenenti alla sconosciuta. E’ la seconda volta che obbligo il collo in una posizione scomoda e anomala, pur di mantenere il contatto visivo con la tipa, il con una visuale distorta e dal basso, alla Tarantino insomma, che aveva un fine di natura affettuosa verso il micino, ma che di fatto ha dimostrato un buco nell’acqua. Sono tentato di rialzarmi, ma per mia fortuna vengo raggiunto ad "altezza marmocchi" dall’ospite, che come me, piega le ginocchia ristabilendo il faccia a faccia. Nel farlo, mi accorgo di una seconda cosa sfuggitami alla prima occhiata: una valigetta, che di certo reggeva nella mano, è stata poggiata in terra. A questo punto un lecito quesito mi fende la mente: mi starò rammollendo senza uno straccio d’investigazione da quando mi sono trasferito? Probabilmente sì, ma non diciamolo troppo, o un certo Robbie potrebbe iniziarla a soffrire di brutto questa scoperta!
    Spedendo nel futuro l’attenzione per la valigetta e il suo, di conseguenza, misterioso contenuto, mi scopro sorpreso nel vedermi vittima del mio stesso giochetto ironico; il chinarsi della giovane donna viene infatti seguito dalla scoperta dell’Osservatore, ironicamente non visto in precedenza, mentre ora è lì, raggomitolato nel suo metro, novanta, ottanta centimetri d’altezza? Mi saluta, per poi dimostrare per la seconda volta una certa dirompenza nel perseguire un determinato fine: quindi assodato che sono un Osservatore, la tipa espone in automatico un secondo quesito, che al primo impatto, mi suona arabo, ma parlato in un dialetto antichissimo, sumerico o babilonese direi.
    Notifica di consulto? Il Talamasca fa le visite, adesso? Johan di Norvegia? Chi è, un pirata, un corsaro dei tempi antichi? Ma di che diavolo sta parlando? Cioè tutta una serie di interrogativi che si disegnano uno dopo l’altro sulla mia fronte, con le sopracciglia sempre più arcuate e innalzate, con pieghe sulla fronte sempre più numerose e profonde. E mentre tutto questo avviene, una lingua che come minimo quelle pareti non avevano mai sentito, né credo esista, fuoriesce dalla voce ferma e sicura della tipa, che rivolta al proprio gatto, gli ordina quello che accade da lì a qualche attimo: il micino, un po’ scocciato, anzi no, proprio afflitto da una gigantesca rottura di palle, sempre se le abbia ancora, mi raggiunge la mano ancora un po’ tesa, strofinandosi. Non ho idea se sia contento di tutto questo, non sento, o forse non riesco a sentire, le classiche fusa. Fatto sta mi soddisfa la cosa, così partecipo, accarezzandolo là dove ogni gatto pagherebbe per poter essere coccolato: dietro le orecchie, sulla testa, sotto il mento. Non durano molto queste smancerie e nel frattempo non posso non ripetermi nella testa la richiesta fatta dalla padrona del micio. Il significato mi appare chiaro, ma non ne so proprio nulla. E quando non si sanno certi fatti, la cosa migliore da fare e prendere il telefono e chiamare Londra: di sicuro sai di non sbagliare più!
    «Che bello che sei!» urlo con una voce scemissima al gatto, grattandola un’ultima volta sotto al mento. Alzandomi poi sulle gambe, che troppo tempo piegate per poco non le avverto più, così da istigare il pavimento ad attirarmi forte verso di sé, comunico la primaria necessità richiesta dal momento: «mi dia giusto il tempo di una rapida telefonata, poi potrò aiutarla al meglio». E senza neanche aspettare una risposta, sradicata sul nascere dal mio indice alzato, mi allontano un paio di minuti, giusto il tempo di: rintracciare il cordless in cucina, comporre il numero della Casa Madre, fare le giuste domande, capire le poi non tanto capibili risposte (e quando mai si fanno capire quelli lì?!), riattaccare, ritornare nell’atrio, sorridere e infine decidere per il meglio.
    «Bene. Spostiamoci dove non saremo disturbati. Intanto mi dica tutto quello che sa a proposito» le comunico, per poi schioccare ancora due volte le dita in direzione del micio; subito dopo, m’incammino nel corridoio da dove sono sbucato prima, dirigendomi lì dove mi trovavo prima e dove sono stato interrotto: il “salotto di lettura” va più che benissimo, per incominciare.
     
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    Una volta che si era chinata all'altezza del giovane osservatore, la bionda Brynhild, con un nota divertita nella voce aveva messo al corrente il suo interlocutore del motivo per cui si trovava, ora, nella sede del Talamasca. Ma qualcosa non quadrava in quella situazione: lo sguardo un pò smarrito del giovane uomo, condito da un'espressione facciale esplicita che pareva dire 'cosa sta dicendo?! Ha una rotella che gira nel verso sbagliato', non era ciò che l'artigiana avrebbe voluto vedere.

    Che fosse stata colpa della sua esuberanza e di quella sua linguaccia, sempre più veloce della mente? Molto probabile. Sfortunatamente era suo di carattere questa fretta ignorante, visto che il più delle volte parlava senza riflettere. Anche i monaci più di una volta le avevano fatto notare, scuotendo il capo sconsolati, che era una persona troppo vivace e speravano di poter calmare il suo animo indomito o che accadesse una volta divenuta adulta. Eppure a trentun'anni suonati non aveva ancora visto questo cambiamento caratteriale di cui tanto parlavano i santoni.

    Ricordava bene quanto avessero lavorato, negli anni, per limare e smussare la esuberanza, ma non era valso a nulla. Tutte le volte che i monaci le davano le spalle, lei tornava ad esser la frizzante ragazzetta di sempre. Forse un pò aiutata dal fatto che non concepiva il pensiero buddista: perchè farsi del male e soffrire per annullare i propri sentimenti, non dover gioire per giungere, forse, nelle tue vite future all'illuminazione? E se dopo la morte non vi fosse stata un'altra vita? Avrebbe sofferto e patito una vita intera inutilmente... meglio allora non aver rimpianti e godersi un'esistenza gaia e spumeggiante.

    Nel mentre, Silac, il candido Foreign dell'artigiana si lasciava carezzare e grattare dall'Osservatore, facendo basse fusa lievemente accennate, ma compensate da un'espressione di giubilo e goduria. Strofinava ora il corto muso appuntito, poco più sotto della bocca sino all'appuntito orecchio, ora il fianco liscio e soffice. Approfittava spudoratamente delle coccole, visto che la padrona, impegnata nel lavoro, nell'ultimo periodo aveva lasciato un pò andare il loro morboso rapporto; inevitabilmente si era sentito metter da parte, abbandonato.

    Fu quasi tentato di artigliare la mano del giovane, visibilmente contrariato, quando questi si era allontanato per un motivo a lui sconosciuto: quale impegno poteva essere più importante di dargli attenzione? Allungò solo lievemente la zampa, gli artigli ben riposti tra le dita. Sapeva che l'attenta padrona non sarebbe stata d'accordo se lui avesse attentato alle dita di quell'individuo. Sospirò in silenzio, tornando dalla bionda nordica, strofinandosi contro i neri pantaloni.

    Brynhild, dal canto suo, rimase a fissare il gatto, ancora accucciata, dopo che l'Osservatore si era dileguato per una veloce chiamata a Londra. Si sarebbe ovviamente informato di ciò che competeva il suo caso, o più semplicemente avrebbe chiesto se davvero esisteva questo fantomatico Johan. Su questo poteva star tranquilla, visto che il vecchio burbero non era frutto della sua immaginazione.

    Lasciò che la sua attenzione si concentrasse unicamente sulla bianca bestiola dagli occhi ambra; ne sfiorò il musetto con un dito, giocherellando con le orecchiette e dietro le vibrisse, finendo per lisciare il pelo lucido e ben curato. Avrebbe dovuto prendere un collarino con la targhetta, non tanto per paura che si smarrisse, quanto per donargli un tocco di eleganza in più. Certo, aveva quello per uscire, ma non piaceva a nessuno dei due.

    "Sei bello come tua madre e coccoloso come lei, brutto gattone che non sei altro." soffiò con dolcezza la norvegese, prendendo in grembo la nivea creatura.

    Il giovane bruno non impiegò molto tempo a tornare e, visto il fatto che l'aveva invitata ad accomodarsi, poteva sentirsi un pò più sicura. Probabilmente quelli della sede centrale gli avevano spiegato il caso, o chissà che altro. L'unica cosa che fece fu di risollevarsi in posizione eretta e seguire il giovane Osservatore sino ad una saletta antistante l'enorme ingresso. Lo stile della saletta non differiva di molto da ciò che aveva visto del locale precedente, nonostante vi fosse una ricerca di uno stile un pò più moderno: si presentava come un salottino di modeste dimensioni dalle pareti di un tenue color beige, arredato con una mobilia ancora un pò retrò, quali paraventi lignei e lampade munite di paralumi del colore delle pareti. Bassi tavoli da caffè e piccoli tavoli erano disposti qua e là fra poltrone e divani dalle sedute in pelle.

    La bionda nordica si accomodò su uno dei tanti divani, mentre nella sua scattante mente andava disegnandosi la composizione di quel sofà: era certa fossero stati ricoperti, in quanto la struttura e le sedute ancora ricordavano stili simili ad altri mobili ottocenteschi. Sicuramente all'inizio erano in taffetà o velluto, come andava a quei tempi, nonostante la tipologia di tessuto si logorasse molto velocemente.

    Fatto ciò accantonò velocemente il breve saggio sulla struttura del divano per concentrarsi nuovamente sull'oggetto che l'aveva portata lì; dunque pose la valigetta sul basso tavolino che le stava davanti, facendo schioccare le due, dando così la possibilità all'Osservatore di dare un'occhiata al manufatto.

    Nonostante la poca luce la fialetta scintillava, mentre sul rotondeggiante ventre si disegnava, un pò distorta, l'immagine di ciò che stava attorno. Brynhild aveva impiegato diverso tempo per pulirla e lucidarla, mettendo a nudo i vari particolari impressi sull'ampolla, ma nonostante questo non era riuscita a scoprire granchè.

    "Mio nonno ha voluto inviarmi questo oggetto. Viene chiamato il Calice di Giuda, anche se con il fantomatico traditore non penso abbia nulla a che fare con questo oggetto. Sul subito ho creduto fosse una burla, ma com'è possibile che questo manufatto sia ritratto in svariati dipinti dell'Ultima Cena? Bassano, Da Vinci, Ghirlandaio, Signorinelli, Canavesio e molti altri lo hanno immortalato. Questo vorrà pur dire qualcosa." s'interruppe un momento per mostrare varie immagini in cui il medesimo 'calice' veniva riprodotto, anche se con grandezze differenti. Consegnò poi all'Osservatore un plico di fogli su cui vi erano varie note di suo nonno e di alcuni Osservatori deceduti da chissà quanto tempo. "A quel punto ho iniziato a leggere gli appunti che mi erano stati inviati ed a far ricerche. Nella cristianità il calice conterrebbe il sangue di Cristo, espiazione di tutti i peccati insieme all'ostia, dunque simbolo di salvezza e redenzione per i peccatori. Però non riesco a capire per quale motivo sia soprannominato 'Calice di Giuda', visto che quest'ultimo più che un santo si è dimostrato un peccatore. Inoltre, pulendo l'ampolla ho scoperto alcuni interessanti particolari: sul fianco dell'oggetto vi è incisa una frase riconducibile alla Vergine Maria come contenitore di vita. Inoltre sul tappo dell'ampolla così come sul fondo vi sono a rilievo una spiga ed un melograno. A questo punto possiamo intendere il Calice come rappresentazione della vita e Giuda quello del tradimento e del peccato. Potrebbe essere inteso come il tradimento verso la vita o, viceceversa, la possibilità di epurare le proprie colpe attraverso il calice. Ma a cosa alludono, invece, i due frutti? A questa domanda non ho risposta. Negli appunti troverà riferimenti al Sacro Graal, ai Greci, nonchè a schegge d'anima inventate da alchimisti. Questo è tutto ciò che so di questo oggetto... signor?"

    Ottimo momento per chiedere con chi avrebbe lavorato al 'caso' del Calice di Giuda. Anche se utilizzare la parola caso le faceva tanto pensare a quelle serie televisive con Perry Mason o Jessica Fletcher.

     
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