I Was never Here [di Sugar Pinkie]

Archivio del vecchio Manicomio

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    I WAS NEVER HERE


    'I was never here'. La frase incisa sul muro della cella 17. Quattro parole che avevano perdurato nel tempo senza sbiadire, dal lontano 1930, e che avevano sempre destato una certa curiosità in chi si affacciava a guardare dentro la stanza, dislocata nell'ala femminile del quanto mai famoso- ed abbandonato- istituto psichiatrico di Nouvieille.
    Non solo la scritta aveva il potere di far divampare un certo occulto interesse, ma anche un buco, un'apertura grande come un pugno sul pavimento sotto la frase. Si apriva fra le piastrelle, un occhio nero che riusciva a guardare in profondità chi a sua volta vi posava lo sguardo. E più a lungo lo si fissava, più era la sensazione di smarrimento e primordiale terrore.
    Nel 1930, dopo la scomparsa della donna che soggiornava nella cella 17, gli inservienti avevano cercato di rimuovere la scritta e riparare il buco, ma ogni sforzo fatto era stato inutile: frase e fenditura ritornavano puntualmente. La cella venne dunque adibita a ripostiglio, un piccolo luogo in cui riporre attrezzatura, sperando di nascondere così i pettegolezzi e le voci che giravano su quella scritta, celata dietro ai pesanti e vecchi materassi smessi. Ma la sensazione di estraneità e ribrezzo verso la cella non cessarono mai, fino alla chiusura del manicomio.

    I was never here... non sono mai stata qui.

    E' matta, avevano detto le vicine quando si era rasata i capelli sostenendo che così non sarebbe stata afferrata.
    Va internata, si erano premurate di dire al commissario quando la giovane aveva iniziato a levare tutte le mattonelle di casa, le dita tagliate e sanguinanti. Solo lei la sentiva grattare e chiamare?
    Poverina, avevano esclamato i passanti quando, vestita solo di una camiciola bianca ed una sotto veste, si era gettata sulle gradinate della chiesa gridando, dopo una furiosa corsa per le strade.

    'Devo vedere il papa... devo vedere il papa... lasciatemi...'

    L'avevano subito rinchiusa: cella numero 17. Psicosi, isteria, alienazione mentale. Ma era sempre stata sana, una giovane senza problemi ed estremamente stabile, cambiata pochi mesi dopo il matrimonio contratto con un uomo vedovo, un facoltoso e triste personaggio che vedeva più il treno delle mura domestiche, e che sulle sue spalle gravava l'ombra di un processo archiviato per l'omicidio della prima moglie.
    Era stata sedata quando era riuscita a recuperare un pezzo di vetro con cui si era, malamente, tagliata i capelli, il cuoio capelluto simile ad un vecchio berretto smesso da cui spuntavano lacerazioni e ciuffi di pelo. Non era servito. Nella tranquillità placida della morfina si era mangiata le unghie, strappandole a fondo, e lasciando nude le punte delle dita, una decina di ballerine in abiti scarlatti. Ed anche a lei fu messo un abito bianco, per impedirle di continuare a ferirsi.

    Le vicine, comari, da tempo si erano rese conto che qualcosa non andava: voci nella casa quando il marito era lontano, uomini e donne inesistenti. Quando vi era lui bisbigli, suppliche verso di lei e le promesse di tornare, di stare buona.
    'Mi ha detto che sei stato tu' aveva mormorato una volta lei con voce incolore.
    'A fare cosa?' si era affrettato a rispondere lui con un tremolio nel bel timbro.
    'L'hai spinta in un buco, molto a fondo'
    Altro non era stato sentito dalle comari, ma da quel momento sulla casa dei due sposi era calata una nera cappa e l'uomo aveva preso a rimanere spesso fuori casa. Fino a quando lei non era stata portata via.

    'Se fai qualcosa per me, poi io ne faccio una per te', erano state le parole degli inservienti, pantaloni calati ed eretti che la visitavano in ogni momento della giornata.
    'Non ricordo più com'è stare al sole', Annita che guardava dalle finestre sbarrate un mondo che non le sarebbe più appartenuto, morta da lì a pochi giorni di infezione e seppellita in una fossa comune. Nessuno la voleva, tranne lei.
    'Signorina, lei sa che se non collabora non potremmo rimandarla a casa da suo marito?', sbottava rabbioso il medico calvo, sulla cui testa poteva scorgere pochi bianchi capelli, come alberi rinsecchiti seminati su una terra lucida e puntinata di orribili macchiette marroni. Lo sapeva.
    'Se parlo con lei mi verranno a prendere... non sarò mai stata qui!' aveva bisbigliato all'uomo con la testa di uovo di quaglia. Si era stesa sulla scrivania, aveva giocherellato con le matite, i fogli, facendo disegni sulla superficie di legno del tavolo, un regalo per l'uomo sempre arrabbiato. Ma a lui non era piaciuto ed era tornata in cella. La sua dose. Ancora stelle sul soffitto grigio delle sue palpebre chiuse, cercando di non ascoltare la testa fatta di lanugine che la guardava dall'angolo della cella, orbite vuote che la fissavano a fondo.
    Mesi? Anni? Dimenticata? Giorni uguali passati a parlare con Rachel, la sua testa di lanugine nell'angolo. Nessuno la voleva pulire, gli inservienti dicevano che non c'era. Ma Rachel era lì, l'unica persona con cui parlare dopo che Annita se n'era andata. Rachel era l'unica con cui poter condividere la cella e le sue paure e fu Rachel a convincerla a parlare.
    'SUA MOGLIE STA A CASA!'
    'IL CAMINO...'
    'RACHEL VUOLE DEI FIORI'
    Frasi sconnesse per gli altri. Indizi utili per lei.
    Il suo non fu un lieto fine, perché lo capirono troppo tardi cosa stesse farfugliando, anni dopo che sul muro era apparsa quella scritta e nel pavimento si era aperto quel buco. Anni che cancellarono il suo nome dai ricordi e dai documenti, ma che fece nascere una leggenda su questa cosa. Che fosse morta, dimessa o spostata in un altro istituto non interessava a nessuno, quanto più la storia che si celava dietro al muro.
    La leggenda semplicemente afferma che una ragazza aveva contratto un matrimonio estremamente favorevole con un ricco vedovo e che questo, dopo che lei aveva scoperto un torbido segreto di lui, era stata internata. Aveva cercato per anni di farsi ascoltare, di rivelare al mondo quello che lui era riuscito a nascondere per anni. Si ipotizzava che lei avesse fatto un patto con forze maligne per andarsene di lì, ma che l'ingenuità della ragazza l'aveva portata ad un grosso sbaglio: fu risucchiata dentro i muri stessi del manicomio, triturata e spezzata per passare attraverso il buco del pavimento ed esser costretta in eterno a fissare chiunque passasse, senza poter proferir parola, soffrendo della sua condizione di anima in pena.
    Forse è vero, forse no. Ma una cosa è certa: chiunque guarda in quel buco non vede niente, ma è sicuro che qualcuno dall'altra parte vi sia a fissarlo. Un'orbita vuota senza palpebre che penetra nel profondo, appartenuta a qualcuno che 'non è mai stata qui'

    di Sugar Pinkie
     
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0 replies since 3/9/2023, 20:13   14 views
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